La "non vittoria" del Pd, che celebra il raggiungimento del Quorum Boccia


Il salto di qualità statistico di Elly Schlein: non solo non ammette la sconfitta al referendum, ma la celebra come una vittoria inventandosi dei numeri tutti suoi
“Non abbiamo vinto anche se siamo arrivati primi. Questo è l’oggetto della nostra delusione”. Quando, dopo il tonfo delle elezioni del 2013, Pier Luigi Bersani se ne uscì con la tragicomica “non vittoria” – un marchio di fabbrica, già usato dall’allora segretario del Pd dopo le amministrative dell’anno prima: “Ci sono comuni come Parma e Comacchio dove noi abbiamo non-vinto perché vorrei ricordare che Parma e Comacchio erano governati dal centrodestra” – c’era la solita incapacità della politica italiana ad accettare la sconfitta, ma comunque la consapevolezza di non poter cambiare la realtà: ovvero i numeri. Con il referendum, invece, c’è un salto di qualità. Il Pd non solo non ammette la sconfitta, ma la celebra come una vittoria inventandosi dei numeri propri.
“Quindici milioni di italiani hanno partecipato dicendo con chiarezza che le politiche del lavoro del governo non vanno. Io penso che sia un grande risultato”, ha dichiarato Francesco Boccia, capogruppo del Pd al Senato. È l’inventore del Quorum Boccia: una soglia arbitraria e completamente indipendente dal quesito, secondo cui un referendum è vinto se i votanti sono superiori al numero di voti ottenuti dai partiti che sostengono il governo alle precedenti elezioni politiche. Non conta che non sia stato superato il quorum costituzionale del 50 per cento, necessario a rendere valida la consultazione, perché di fatto per il Pd il referendum abrogativo è stato trasformato in una sorta di sondaggio sul gradimento del governo: se i Sì sono di più dei voti presi dal centrodestra nel 2022 è un “avviso di sfratto” per Meloni.
Il primo a parlare della segreteria del Pd è il povero Igor Taruffi, costretto a celebrare davanti alle telecamere, con una faccia mesta, il superamento del Quorum Boccia: “L’obiettivo del referendum è raggiungere il 50 per cento e quel risultato non è arrivato. Ma dal punto di vista politico, su 15 milioni di italiani andati alle urne, circa 13 milioni si sono espressi a favore. Quando sei al governo e un numero di cittadini superiori a quelli che ti hanno votato, ti chiede di cambiare una legge, una riflessione la devi fare”. Solo dopo ha parlato la segretaria Elly Schlein, ribadendo la linea Taruffi: “Hanno votato più elettori di quelli che hanno votato la destra mandando Meloni al governo nel 2022”. Il problema è che il Quorum Boccia non è stato affatto superato: nel 2022 il centrodestra ha preso alla Camera 12,3 milioni di voti ma, secondo le proiezioni al momento in cui questo giornale va in stampa, il quesito con il più elevato numero di Sì non riuscirebbe a superare questa soglia: dovrebbe fermarsi a 12,2 milioni. Siamo al limite.
Ma se si guarda in prospettiva questo risultato, c’è poco da festeggiare. L’affluenza, attorno al 30 per cento, è stata inferiore a quella per il referendum sulle trivelle del 2016 (31,2 per cento). Risulta poi complicato applicare il Quorum Boccia per spiegare la fiducia degli elettori nel governo perché, se pure i Sì l’avessero superato per i quesiti sul Jobs Act, sono stati di molto inferiori per il quesito sulla cittadinanza: il voto è quindi un “avviso di sfratto” per il governo sul lavoro e un “avviso di sfratto” per l’opposizione sull’immigrazione? Non si capisce.
E questo perché non ha molto senso confrontare i voti in un referendum, che riguardano un tema specifico, con i voti espressi in elezioni politiche come le legislative o le europee. Ci aveva provato già Matteo Renzi, dopo la sconfitta nel referendum costituzionale del dicembre 2016, a dire che il 40 per cento di Sì erano tutti suoi: dopo un anno e mezzo, alle elezioni politiche del 2018, il Pd di Renzi prese il 18 per cento e il centrosinistra il 22 per cento (circa la metà dei 13,4 milioni di Sì del referendum costituzionale). Se si va più indietro negli anni, al referendum istituzionale del 1946, dei 10,7 milioni di voti presi dalla monarchia solo una piccola frazione (1,7 milioni di voti) andò due anni dopo, alle elezioni del 1948, ai due partiti che avevano sostenuto il Re contro la Repubblica: il Partito liberale e il Partito monarchico.
Mischiare le pere con le mele e stravolgere i numeri a fini propagandistici, peraltro, non aiuta molto a cambiare la realtà. La campagna referendaria è cominciata proprio in questo modo,il 19 luglio 2024, con Maurizio Landini che dichiarava di aver depositato in Corte di Cassazione “quattro milioni di firme” per i quattro referendum sul lavoro. Sembrava una prova di forza impressionante, ma era una balla. Innanzitutto non si trattava di quattro milioni di cittadini che avevano sottoscritto i referendum, come si era portati a immaginare, ma delle stesse persone che avevano firmato quattro quesiti diversi. E in ogni caso, il risultato era gonfiato. Perché dalle ordinanze della Cassazione sui referendum si vede che la Cgil aveva depositato circa 875 mila firme e, pure moltiplicandole per i quattro quesiti promossi dalla Cgil, il totale fa 3,5 milioni: mezzo milione in meno dei 4 milioni annunciati da Landini.
Nessuno di questi trucchi contabili, dal Quorum Boccia al Moltiplicatore Landini, è servito a cambiare la realtà: anche questa volta, il centro sinistra ha non-vinto.
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